PER AMY
“Life has a way to push you beyond your limits to places you never thought you’d achieved.
When trials hit, always remember it is preparing you to go beyond you limits…”
(La vita ha un suo modo di spingerti oltre i tuoi limiti, di farti trovare in posti e situazioni che non avresti creduto di realizzare. Quando le prove colpiscono, ricorda sempre che si sta preparando la strada per andare oltre i tuoi limiti)
foto e citazione di Taddy
Le relazioni sono il setaccio della nostra vita, la lima che affila e definisce il nostro carattere, i comportamenti, e ci permettono di diventare migliori, di risplendere di luce propria, come diamanti.
Ci confrontiamo/scontriamo spesso con la facilità di cadere nella trappola dei pregiudizi. Ostacoli che sembrano insormontabili, come quello dei rapporti tra genitori e figli, la difficoltà di comunicare tra sessi diversi.
Spesso cerchiamo, accusandoci reciprocamente, chi è il colpevole.
È una vecchia abitudine: qualcuno deve essere il colpevole, e sicuramente non sono io, vero? Se non possiamo litigare di persona, lo facciamo con la mente. Così non riusciamo mai a ritrovare l’armonia. ‘Lei, o lui, ha detto la tal cosa e questo mi ha ferito’, e così via. generazioni, il rapporto tra i sessi.
Non litigare è una “pratica” molto profonda, che si acquisisce se si esercita una mente calma e che permette di fare chiarezza. Quando guardiamo in profondità dentro noi stessi, infatti, vediamo che questo significa non incolpare l’altro di ciò che è accaduto.
Quello che succede riguarda il nostro mondo interiore:’Avevo delle idee sulla situazione, ma le cose sono andate diversamente e non ho saputo più gestire le conseguenze.
Questa è la pratica più profonda che ho imparato: tornare sempre a me stesso, ricordare sempre a me stesso di farlo.
L’altra persona può essere la causa ultima della situazione, ma è a me che non piace.
Non si tratta di analizzare i propri giudizi o le proprie avversioni, quanto di stare con le sensazioni spiacevoli o dolorose, toccare le ferite profonde che non abbiamo voluto vedere per molto tempo: non le conoscevamo, ma c’erano.
Conoscere se stessi significa che dall’osservazione delle proprie reazioni e dalla comprensione della rabbia, del risentimento, del rifiuto, si ha la possibilità di conoscere anche gli altri. Poiché si entra in contatto con il sentimento di rifiuto, lo si riconosce nel prossimo.
Prima non capivo. Vedevo qualcuno arrabbiato a causa mia, ma non capivo perché: non avevo detto niente di male, in fondo.
Ora tutto è molto più chiaro, perché sono entrato in contatto con certi miei percorsi mentali e così posso essere in contatto anche con la mente dell’altro.
E’ questo il motivo più profondo per cui dobbiamo conoscere noi stessi.
Cominciamo da noi, ma non per un fine individuale.
In tedesco la parola compassione significa ‘ho la tua stessa sensazione, posso condividere questa sensazione con tè.
Occorre, però, che prima di tutto la provi io. Conoscere me stesso non è altro che conoscere te.
Se ci mettiamo in condizione di prestare attenzione alle situazioni è sorprendente scoprire come tutti quanti usiamo gli stessi stratagemmi per essere amati, per avere attenzioni.
Soltanto quando gli altri non ci assecondano e non si lasciano trascinare dai nostri meccanismi siamo in grado di guardare e di capire cosa ci succede realmente. Allora riusciamo a stare con il desiderio di essere amati, con il senso di vuoto.
E se non sprofondo in quel senso di vuoto, se non attraverso fino in fondo quella sensazione, come posso vederne la luce?
Solo in questo modo si possono Superare i propri limiti. guardare in profondità in me stesso, nella mia rabbia, nelle mie idee, nelle mie ragioni: prendendomene cura.
Thich Nhat Hanh un giorno ha chiesto ‘cos’è per voi la meditazione?’ e ha spiegato che è il modo in cui aprite una porta’.
La consapevolezza è la parte attiva dell’amore, la base del prendersi cura.
Ecco perché anche la maniera in cui aprite la porta esprime la vostra gentilezza, la vostra tenerezza, il vostro prendervi cura delle cose.
Tratto da un discorso di Thich Nhat Hanh del ritiro estivo del 1996
Quando amate qualcuno, dovete essere veramente presenti per l’altro. Ho conosciuto un bambino di dieci anni al quale il padre aveva chiesto cosa desiderasse per il suo compleanno. Il bambino non seppe rispondere: il padre era ricco e avrebbe potuto permettersi di comprargli qualsiasi cosa. Ma il ragazzino disse soltanto: ‘Papà, voglio te!’. Il padre era sempre troppo occupato e non aveva tempo per la moglie e i figli. Per dimostrare vero amore, dobbiamo renderci disponibili. Se quel padre imparasse a respirare consapevolmente e a essere presente per suo figlio, potrebbe dire:’Figlio mio, sono veramente qui per tè.
Il dono più grande che possiamo fare agli altri è la nostra vera presenza. Sono qui per te è un mantra da pronunciare in perfetta concentrazione. Se siete concentrati, corpo e mente uniti, si rivelerà una vera presenza e qualsiasi cosa diciate diverrà un mantra. Non è necessario usare mantra sanscriti o tibetani, potete usare la vostra lingua:’Caro, sono qui per tè. E se sarete davvero presenti, il mantra compierà un miracolo. Voi, l’altra persona, la vita stessa diventeranno reali in quel momento. In questo modo, porterete felicità a voi stessi e all’altro.
So che ci sei e sono molto felice è il secondo mantra. Quando guardo la luna, respiro profondamente e dico:’Luna piena, so che ci sei e sono molto felice’. Faccio lo stesso con la stella del mattino. La scorsa primavera ero in Corea e camminavo consapevolmente tra le magnolie. Guardai un fiore di magnolia e dissi:’So che ci sei e sono molto felice’. Essere lì davvero e comprendere che anche l’altro è lì è un miracolo. Se, contemplando un tramonto, ci siete davvero, lo riconoscerete e lo apprezzerete profondamente. Guardando il tramonto, mi sento molto felice. Ogniqualvolta siete davvero lì, potete riconoscere e apprezzare la presenza dell’altro: la luna piena, la stella polare, le magnolie e la persona che amate di più.
Prima di tutto praticate l’inspirazione e l’espirazione profonda, per recuperare voi stessi, poi sedetevi vicino alla persona che amate e, in quello stato di profonda concentrazione, pronunciate il secondo mantra. Sarete felici voi e l’altro insieme. Questi mantra si possono praticare nella vita quotidiana, ma perché funzionino davvero, dovete praticare la consapevolezza del respiro, la meditazione seduta e camminata, di modo da rendere la vostra presenza una vera presenza.
Il terzo mantra è: Caro, so che soffri. Ecco perché sono qui per te. Se siete consapevoli, noterete che la persona che amate soffre. Se, quando soffriamo, la persona che ci ama non se ne rende conto, soffriamo di più. È sufficiente praticare il respiro profondo e sedersi vicino, dicendo:’Caro, so che soffri. Ecco perché sono qui per tè. e la sola presenza allevierà molta della sua sofferenza. Siete in grado di farlo qualsiasi sia la vostra età, anche se siete dei bambini.
Il quarto mantra è il più difficile. Si deve praticare quando siete voi a soffrire e credete che la persona che amate sia la causa della vostra sofferenza. Il mantra è: Caro, soffro. Per favore, aiutami. Sono solo cinque parole, ma sono molte le persone che non sono in grado di pronunciarle a causa del loro orgoglio. Se qualcun altro avesse fatto oppure detto quella cosa, non soffrireste così tanto. Ma proprio perché è stata la persona che amate, vi sentite profondamente feriti. Vorreste solo andare a piangere nella vostra stanza. Ma se l’amate veramente, quando soffrite tanto, dovete chiedere il suo aiuto, dovete vincere l’orgoglio.
In Vietnam c’è la storia famosissima di un marito che dovette andare in guerra, lasciando la moglie che era incinta. Tre anni dopo, fu congedato e poté tornare a casa. La moglie andò ad accoglierlo all’ingresso del villaggio, portandosi il figlioletto. Quando marito e moglie si videro, non riuscirono a trattenere le lacrime. Si sentirono grati verso gli antenati che li avevano protetti, perciò il giovane chiese alla moglie di andare al mercato a comprare frutta, fiori e altre offerte da porre sull’altare degli antenati.
Mentre lei era a fare spesa, il giovane chiese al bambino di chiamarlo papà, ma il figlio rifiutò:’Signore, voi non siete il mio papà. Il mio papà veniva ogni sera e la mamma parlava con lui e piangeva. Quando la mamma si sedeva, anche papà si sedeva. Quando la mamma si coricava anche papà si coricava’. Nell’udire queste parole, il cuore del giovane si fece di pietra.
Quando la donna tornò, egli non riusciva nemmeno a guardarla. Offrì i frutti, i fiori e l’incenso agli antenati, fece le prosternazioni e, poi riavvolse il materassino, senza permettere alla moglie di compiere gli stessi riti, poiché non la considerava degna di presentarsi davanti agli antenati. Ella non comprese il perché di quel modo di agire. Nei giorni successivi, il marito non rimaneva a casa, andava a bere e non tornava che a notte fonda. Alla fine, dopo tre giorni di quella vita, ella non riuscì più a sopportare la situazione e si buttò nel fiume, annegando.
La sera stessa del funerale, quando il padre accese la lampada a kerosene, il bambino esclamò:’Ecco il mio papà!’ e indicava l’ombra che il padre proiettava sul muro. ‘Così veniva papà ogni sera e la mamma parlava e piangeva con lui. Quando la mamma si sedeva, anche lui si sedeva. Quando la mamma si coricava, anche lui si coricava’. ‘Caro, da quanto tempo sei lontano. Come farò a crescere tutta sola il nostro bambino?’ diceva piangendo alla sua ombra. E una sera che il bambino le chiese chi e dove fosse suo padre, ella indicò la sua ombra sul muro e disse:’Ecco tuo padre’. Sentiva così tanto la sua mancanza!
D’improvviso il giovane padre comprese, ma era troppo tardi. Se appena il giorno prima fosse riuscito ad andare dalla moglie a dirle:’Cara, soffro tanto. Nostro figlio parla di un uomo che veniva ogni sera, con cui parlavi e piangevi, che si sedeva quando tu ti sedevi. Chi è?’ la donna avrebbe avuto la possibilità di chiarire la situazione. Ma non l’aveva fatto, per orgoglio. Lo stesso era stato per la donna. Anche lei si era sentita ferita profondamente dal comportamento del marito, ma non aveva chiesto il suo aiuto. Avrebbe dovuto praticare il quarto mantra:’Caro, soffro tanto. Per piacere, aiutami. Non capisco perché non mi guardi e non parli con me. Perché non mi permetti di prosternarmi agli antenati? Ho fatto qualcosa di male?’. Se lo avesse fatto il marito le avrebbe riportato le parole del bambino. Ma anch’ella, prigioniera del suo orgoglio, non chiese nulla.
Nel vero amore, non c’è posto per l’orgoglio. Non cadete nella stessa trappola. Quando vi sentite feriti dalla persona che amate, quando soffrite per causa sua, ricordate questa storia. Non agite come la madre e il padre del bambino. Non fatevi bloccare dall’orgoglio, praticate il quarto mantra:’Caro, soffro. Per piacere, aiutami’. Se realmente pensate che l’altro sia la persona che più amate nella vita, dovete farlo. Quando l’altro udrà le vostre parole, tornerà a se stesso e praticherà lo sguardo profondo. Insieme potrete risolvere la questione, riconciliarvi e dissolvere quella percezione.