Frustrati da decenni di soprusi ininterrotti, nati e cresciuti nello stesso ribollire di una spirale infinita di violenza, i palestinesi hanno iniziato ad assumere comportamenti “non violenti”.
Il credo di Mahatma Gandhi che ha dato libertà al popolo dell’India(…”il mio ottimismo si fonda sulla mia convinzione che ogni individuo ha infinite possibilità di sviluppare la nonviolenza.
Più l’individuo la sviluppa, più essa si diffonderà come un contagio che a poco a poco contaminerà tutto il mondo…”) forse metterà una bandiera bianca fra i due popoli, abbatterà quel muro per costruire fondamenta di concordia. “La non-violenza e’ una strada stretta e in salita, ma e’ l’unica che dopo anni di lotta prevalentemente militare ancora ottiene qualche piccolo risultato.
Su questo tutti noi dobbiamo cominciare a lavorare.” Così ha dichiarato nell’ultima conferenza sulla pace Ettore Acocella(Associazione per la Pace Coordinamento per una presenza civile di pace in Palestina ed Israele).
“Finché un palestinese lancerà un solo sasso, gli israeliani potranno sempre sostenere di mettere in atto la repressione in difesa e a salvaguardia della propria sicurezza.”
Ma nel momento in cui i palestinesi perseguono i loro diritti attraverso la strada della non-violenza, verrebbero a togliere agli israeliani la scusa stessa per trattarli come li stanno trattando ormai da decenni: prigionieri in casa propria.
E’ quello che è accaduto in un piccolo ma significativo episodio, l’altro giorno, sulla strada di Betlemme…
Quando un gruppetto di 10 palestinesi, invece di prendere di mira come al solito i soldati di guardia ai posti di blocco, ha rimosso il grande masso che bloccava le comunicazioni con il villaggio vicino, per poi mettersi in pacifica attesa di un bulldozer israeliano, che sarebbe certamente venuto per rimetterlo a posto.Con loro grande sorpresa, i palestinesi si sono ritrovati al loro fianco un attivista israeliano, che nella premessa della non-violenza ha difeso volentieri i loro diritti, schierandosi apertamente accanto a loro.”
Scrive il giornalista Massimo Mazzucco
La risoluzione alla questione fra Palestina ed Israele può avvenire solo dall’interno di Israele stesso, nel giorno in cui i sostenitori del diritto palestinese alla loro terra, riuscissero in qualche modo, a contrapporre la propria filosofia a quella fondamentalista e repressiva, finora dominante.
L’episodio di Betlemme diventa ancora più significativo in luce di una recente risoluzione della Corte Suprema israeliana, che ha imposto la rimozione di 18 chilometri del famoso “muro”, attorno al villaggio di Bilin (West Bank, a nord-est di Gerusalemme), in quanto “il transito dei palestinesi in quella zona non avrebbe rappresentato un rischio immediato per la sicurezza nazionale”.
Bil’in e’ una strada, anzi due.Una strada e’ quella attorno alla quale si snodano le case del villaggio, l’altra, poco più a valle e’ il tracciato del muro, con le sue torrette di osservazione, il recinto ettrificato, la fascia di sicurezza sui due lati e pocooltre l’insediamento in espansione. Bil’in e’ un paese, anzi due.
Il piccolo paese che vive di agricoltura e pastorizia fino a pochi anni fa garantiva ai suoi abitanti un relativo benessere economico, determinato anche dalla vicinanza con Ramallah, grosso centro urbano dove vendere i prodotti; e poco più ad ovest, oltre il muro un’altro paese, Modi’in Illit con i suoi palazzoni bianchi in costruzione, piscine e giardinetti. Un paese abitato da gente diversa, per lingua cultura e religione, un paese abitato da ladri di terre e di risorse. Bil’in e’ un simbolo, anzi due.
E’ il simbolo di una resistenza diversa, non-violenta ma determinata, me e’ anche il simbolo di un potere occupante arrogante, che procede sulla strada dell’esproprio e delle violazioni del diritto internazionale, ignorando le proteste e le legittime richieste degli abitanti di quelle terre, e’ triste constatare come il muro a Bil’in e’ andato avanti nonostante questi due anni di manifestazioni.
Bil’in e’ un popolo in lotta, anzi due con gli israeliani, anzi tre se contiamo anche le centinaia di internazionali che in questi anni hanno partecipato alle manifestazioni. Una lotta che non nasce da indicazioni politiche arrivate dall’alto o da gruppi di potere più o meno religiosi che usano la lotta dei palestinesi in modo strumentale ai propri fini, e’ una lotta spontanea che nasce dalle esigenze primarie di una comunità: difendere la propria terra, spesso unica fonte di sostentamento.
Bil’in e’ una manifestazione, anzi sono le cento manifestazioni di questi due anni. Così, mostrando di perseguire i propri diritti senza ricorrere alla violenza, i palestinesi tolgono ad Israele la ragione stessa – o la scusa – per mantenerli in un vero e proprio stato di cattività, non lontano da quello delle bestie.
In fondo, con questo metodo, Gandhi è riuscito a liberare una intera nazione, grande 100 volte la Palestina stessa. E gli inglesi di allora non erano certo più teneri degli israeliani di oggi.”
In fondo quanti tentativi sono stati invani fino ad oggi?
Tatbya in arabo significa “normalizzazione“. Un concetto che e’ diventato comune nelle due società dopo gli accordi di Oslo e che ha caratterizzato tutte le azioni congiunte degli anni novanta, azioni volte a normalizzare i rapporti tra i due popoli, mentre la situazione sul territorio andava tutt’altro che normalizzandosi.
Questo rende sospetto agli occhi dei palestinesi questo tipo di iniziative, molti di loro, memori degli anni passati le vedono come fumo negli occhi, mentre intanto continuano gli scontri, come gli arresti, le incursioni militari, lo strangolamento economico etc etc.
Ciò nonostante, queste iniziative sono l’unico modo per combattere la strategia (israeliana ma anche di una minoranza fondamentalista della società palestinese) di separazione dei due popoli, una strategia cominciata dopo Oslo e che continua tutt’ora, di cui il muro e’ solo l’aspetto più evidente.
Per noi occidentali, non-violenza significa anche capacita’ di discernimento, significa riuscire a distinguere, ad evidenziare le differenze riuscendo ed imparando a conviverci.
D’altronde non tutti gli israeliani sono responsabili delle azioni del proprio governo, conosciamo ed apprezziamo molti israeliani che da anni si battono per rendere giustizia ai palestinesi, spesso pagando un prezzo molto alto in termini di isolamento ed emarginazione all’interno della propria comunità, rischiando anche la galera. (come Jeff Halper, israeliano di origini americane, e’ stato il fondatore dell’ ICHAD -comitato israeliano contro la demolizione delle case palestinesi).
Ma noi non viviamo in campo profughi, non vediamo ogni sera le jeep dell’esercito entrare in città ad arrestare o uccidere qualcuno dei nostri figli o dei nostri amici, noi non impieghiamo ore per raggiungere la nostra scuola o il nostro posto di lavoro che dista pochi chilometri da casa.
Perché…“non c’è liberazione per alcuno su questa terra, né per tutta la gente di questa terra, se non attraverso la verità e la nonviolenza, in ogni cammino della vita, senza eccezione”. (M.K.Gandhi, La forza della Verità, vol.1, Sonda, Torino, 1991, p.78)
Approfondimenti: http://www.reteccp.org/convegni/forumpage.html